Quando, nell' ottobre '43, Padre Martino divenne professore a Castiglione dei Pepoli, un paese dell'Appennino bolognese, si trovò catapultato dalla capitale in un altro mondo: il fronte si avvicinava, la strada nazionale Bologna-Firenze era percorsa da mezzi militari, i tedeschi si erano insediati anche in alcuni locali della casa dei religiosi. Nel luglio del 1944 tutta la comunità religiosa si trasferì poco più a nord, a Burzanella, un altro piccolo centro dell'Appennino, apparentemente tranquillo, in realtà al centro di scontri tra tedeschi e partigiani. Il 18 luglio i tedeschi bruciarono alcune case e catturarono cinque persone, accusate di avere dato aiuo ai partigiani. Padre Martino intervenne presso il comandante ma riuscì ad ottenere solo la liberazione dei tre che non avevano usato le armi: per gli altri due, di 19 e 20 anni, poté soltanto portare i conforti religiosi.
Quello stesso pomeriggio andò nei boschi a recuperare i corpi di due partigiani che erano rimasti uccisi alla mattina durante un conflitto a fuoco coi tedeschi.
Dopo questi avvenimenti padre Martino, temendo per sé e per la comunità di Burzanella, si trasferì a Salvaro, vicino a Marzabotto, presso l'anziano parroco, dove era ospite anche don Elia Comini. Passò l'estate camminando da solo da una valle all'altra per predicare, confessare, celebrare messe. Lui sapeva dei partigiani, i partigiani sapevano di lui e sospettavano che fosse una spia. Il 16 settembre '44 lo catturarono, lo minacciarono di fargli scavare la fossa e ammazzarlo, se non avesse detto la verità. Alla fine, la mattina seguente, lo lasciarono andare, ma non senza minacce.
Padre Martino continuò a prestare la sua opera, con grande generosità e poca prudenza. Il 26 settembre, per vendicare un tedesco ucciso dai partigiani in uno scontro, i nazisti bruciarono una casa e uccisero tre civili: Padre Martino e don Elia intervennero a placare la reazione dei tedeschi, accolsero in canonica le famiglie colpite, trasportarono e seppellirono i morti.
Non accolse i ripetuti inviti dei suoi superiori a rientrare a Burzanella per mettersi al sicuro; per lui fu doloroso compiere un atto di disobbedienza, ma sentiva che il suo posto era tra quella gente spaventata e sofferente. Pioppe era stata bombardata due volte il 23 e 25 settembre.
Il 29 settembre, il primo giorno della strage, l'allarme arrivò all'alba: si sentivano gli spari, alcuni uomini fuggirono nei boschi, altri terrorizzati corsero in chiesa. Padre Martino e don Elia, con l'aiuto delle suore, ne nascosero una settantina in sagrestia, coprendo la porta con un grosso armadio, altri 15 sotto il pavimento della cucina, 5 sul campanile. Uno fu messo seduto in cantoria con un fazzoletto da donna in testa. In chiesa le donne e i bambini pregavano ad alta voce, per coprire eventuali rumori provenienti dalla sagrestia. I tedeschi entrarono in chiesa più volte ma non trovarono niente.
Intorno alle otto arrivò un uomo dalla Creda, un cascinale sui monti, dove già era avvenuta la strage. Era sconvolto, parlava di tanti morti, feriti, e chiedeva aiuto. Padre Martino e don Elia partirono immediatamente, nonostante il pericolo. Ma alla Creda non arrivarono mai: i tedeschi li arrestarono quasi subito, lungo il sentiero. Li costrinsero a trasportare armi e munizioni e alla sera li rinchiusero nella scuderia della locale canapiera insieme ad altri rastrellati. In tutto erano 111. La mattina successiva, sabato 30 settembre, alcune donne, riuscirono a portare cibo e qualche indumento, e a parlare con loro per qualche minuto.
I nazisti procedettero poi alla selezione dei prigionieri, dividendoli in tre gruppi. I giovani e gli uomini abili al lavoro furono raggruppati nella vicina chiesetta, in attesa di partire per la Germania.
Un secondo gruppo sarà lasciato libero il giorno seguente: ne faceva parte don Giovanni Fornasini, un altro parroco che verrà poi ucciso alcuni giorni dopo a S. Martino.
Nel terzo gruppo c'erano Padre Martino e Don Elia che, con altri 44 uomini, restarono chiusi nella scuderia. Verso sera fallì l'ultimo tentativo di salvarli: il commissario prefettizio di Vergato, trattando coi tedeschi, era riuscito ad ottenere la libertà solo per i due sacerdoti, che avevano rifiutato: "o tutti o nessuno", aveva risposto Don Elia.
Nel terzo giorno di prigionia, verso sera, i soldati derubarono i prigionieri degli oggetti di valore.
Poi li fecero uscire, avviandoli verso la canapiera e fermandoli davanti alla "botte", la vasca che raccoglieva l'acqua per le turbine dello stabilimento: in quel momento era vuota, sul fondo c'era uno strato di fango. Sul terrapieno della ferrovia, di fronte alla botte, erano collocate delle mitragliatrici; accanto ad esse venti o trenta soldati al comando di un sergente. I tedeschi ordinarono agli uomini di togliersi le scarpe; poi un primo gruppo venne fatto salire sulla passerella della vasca e immediatamente falciato dalle mitragliatrici. In quel gruppo c'erano Padre Martino Capelli e Don Elia Comini. Il secondo gruppo dovette buttare nel fango i corpi dei compagni, prima si essere falciato a sua volta. I nazisti sparano alcuni colpi nella vasca e lanciarono delle bombe a mano perché la strage fosse completa. Eppure tre sopravvissuti, feriti ma non mortalmente, riuscirono a uscire dalla vasca e saranno i testimoni dell'orrore. Uno di loro, Pio Borgia, racconterà che, scosso dai corpi degli altri fucilati, Padre Martino con fatica si sollevò, tenendo una mano premuta sul ventre squarciato mentre con l'altra tracciava dei segni di croce sui compagni, e ricadde morto.
Quei corpi rimasero esposti per diversi giorni: in molti tentarono di recuperarli per seppellirli, ci provò anche Don Fornasini, ma i tedeschi non permettevano a nessuno di avvicinarsi. Finché, dopo molti giorni, quando la situazione era diventata ormai insostenibile, un uomo aprì le paratie: i corpi vennero trascinati dalle acque, sospinti nel Reno, e scomparvero per sempre.
Scheda elaborata da Donata Pracchi - guida volontaria del Parco storico di Monte Sole-Ente Parchi Emilia-Orientale
Fonti
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